Il cibo è una religione

L’uomo, si sa, è ciò che mangia. Ma quello che mangia dipende spesso dalla sua fede. Ecco perché si insiste sulla condivisione

di Marino Niola

Sacrificare agli dèi significa principalmente dar loro da mangiare. A dirlo è il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. Come dire che se l’uomo è ciò che mangia, Dio non è da meno. Perché in realtà, da che mondo è mondo, attraverso le scelte alimentari ogni popolo costruisce simultaneamente l’immagine di sé e quella della divinità. In questo senso il cibo, proprio in quanto carburante della storia, è anche la materia prima della religione. E le norme alimentari sono il fondamento di quelle morali, non la loro conseguenza.

Ogni decalogo religioso, infatti, è un menu sottotraccia. Quel che è lecito e quel che è proibito, i tempi e le modalità della cottura, della produzione e del consumo, la convivialità, la comunione, lo scambio, le forme del sacrificio, le regole della macellazione animale e della produzione degli alimenti, hanno sempre un fondamento sacro. Nel senso che gli uomini attribuiscono al volere degli dèi norme, usi e consumi che in realtà loro stessi hanno creato. Ma che acquistano un’autorità indiscutibile, superiore, nel momento in cui vengono sacralizzati. Questo passaggio di mano, dagli umani ai divini, serve in principio a mettere un limite agli appetiti individuali, trasformando l’eccesso in peccato, per favorire una redistribuzione più vasta delle risorse alimentari. Ecco perché le religioni enfatizzano l’importanza della condivisione, della comunione alimentare. Che per i Cristiani ha il suo modello nell’Ultima Cena, quando Cristo offre all’umanità il dono-perdono del suo corpo, transustanziato in pane e in vino. Come se il cibo condiviso acquistasse un valore aggiunto, un plus spirituale, che nutre insieme l’anima e la carne.

Ed è per questo che nell’Antico Testamento il profeta Amos, settecento anni prima di Cristo, tuona contro la grassezza. «Guai a voi, uomini pingui, ascoltate, vacche di Basan, che opprimete i poveri». Ci va giù duro anche Isaia, che colloca gli obesi tra i malvagi, perché la loro voracità oltrepassa i limiti del lecito e del giusto. Per una ragione analoga Dante sbatte i golosi all’Inferno. A ben guardare ad essere oggetto di tutti questi anatemi non è il sovrappeso in sé, ma l’egoismo di quelli che si pappano tutto, ingrassando a spese degli altri. E un Padre della Chiesa del calibro di Tertulliano afferma che una persona magra farà meno fatica ad entrare nel regno dei cieli che, notoriamente, ha una porta stretta. Traducendo in termini di peso e misura la parabola evangelica del cammello, che passa sfrecciando attraverso la cruna dell’ago, mentre il ricco Epulone, quello che secondo il Vangelo di Luca «tutti i giorni banchettava lautamente», si incastra tra gli stipiti celesti. Di fatto non siamo lontani da quel che dirà nel 1967 Papa Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio , «i ricchi sappiano almeno che i poveri sono alla loro porta e fanno la posta agli avanzi dei loro festini ».

Ma anche nel mondo mediterraneo politeista un filo doppio lega tavola e religione. In Grecia e a Roma il consumo dei cibi che costituiscono la base della tabella nutrizionale – cereali, carne e vino – è legato agli dèi e ai pasti sacrificali. Gli animali vengono immolati secondo un rituale specifico che in greco si chiama thusia , officiato da un sacerdote-macellaio, il mageiros. Pelle, grasso e ossa vengono gettate sul fuoco che arde sull’altare per offrirle agli immortali, che si nutrono di aromi e di effluvi. Mentre spalle e cosciotti vengono divorati dai cittadini. Che socializzano la tavola con i più poveri attraverso istituzioni sacre come le “cene di Ecate”, la dea della notte, dove i cibi del sacrificio, pagati dai benestanti, vengono rigorosamente consumati dai nullatenenti.

In effetti proprio da questi banchetti sacri nasce quella che noi chiamiamo la sfera pubblica, koinon , contrapposta alla sfera privata,

idion , una distinzione che alimenta ancora oggi il nostro pensiero politico. In altre parole, la democrazia ateniese è nata a tavola, ma una tavola con vista sull’Olimpo.

E a Roma accade qualcosa di simile. Addirittura, secondo un grande storico delle religioni come John Scheid, buona parte del nostro attuale lessico politico deriva proprio dalla terminologia dei banchetti sacrificali romani. Per esempio, la parola «partecipazione», che per noi è il mantra della cittadinanza, viene da pars capere , letteralmente prendersi una parte del pasto sacrificale. E princeps , da cui il nostro principe, deriva da primus capere , cioè colui che viene servito per primo.

Insomma, il sacrificio serve a ristabilire un equilibrio con il dio consacrandogli un cibo. Ma, al tempo stesso, determina l’identità di un popolo, attraverso la condivisione delle abitudini alimentari, influenzando il gusto, la sensibilità, le relazioni sociali, le differenze di genere.

Secondo Pitagora, primo sponsor del vegetarianesimo, una donna che voglia essere irreprensibile, pia, in una parola «perfetta», dovrebbe prediligere le lattughe, perché anestetizzano il desiderio di cui le ragazze sarebbero ricche per natura. Lasciando perdere le carni che invece eccitano i sensi e l’anima. Chissà che l’attuale preferenza femminile per le insalatone, oltre che con ragioni di educazione e di linea, non abbia a che fare con quest’eco religiosa remota. Una eco che non ha mai smesso di abitare il nostro immaginario, gastronomico e non solo. Perché etica e dietetica, bilancia e coscienza, salute e salvezza vanno spesso di pari passo. E nel dilagare contemporaneo di diete fondate sulla privazione, sull’astinenza da questo o quell’alimento, su un intransigente ascetismo laico, riaffiora l’ombra lunga della precettistica religiosa. E di ideali religiosi come l’askesis, cioè la purezza, da cui deriva la parola ascesi. Che consiste nel praticare uno stile di vita temperante, rinunciante, misurato, non violento. Oggi diremmo politicamente corretto.

Ovviamente a tavola è lecito fare come si crede. Rimpinzarsi o astenersi, premiarsi o punirsi. Ma è utile sapere che il nostro credo nutrizionale ha quasi sempre alle spalle un credo religioso. In fondo, credenti o non credenti, volenti o nolenti, ogni volta che ci mettiamo a tavola cerchiamo di mangiare come Dio comanda.