IL DILEMMA DELL’ONNIVORO

L’uomo è ciò che mangia” è una delle affermazioni più illuminanti  e demistificanti che la filosofia, con Feuerbach

, ha prodotto e che trova oggi, più che mai, un riscontro a livello globale per le implicazioni che la moderna industria alimentare genera nel condizionare il normale ciclo di fabbisogno  degli esseri umani.

In  realtà la storia alimentare umana ha visto la successione di 3 principali catene alimentari.

La caccia e la raccolta, la fase biologica organica, ed infine quella industriale.

Queste fasi si sono succedute temporalmente a partire dagli uomini primitivi con la caccia e la raccolta, poi con la rivoluzione agricola del Neolitico ed infine , in epoca moderna, con la produzione alimentare industriale.

La storia della vita sulla terra è la storia della lotta tra le specie per catturare e immagazzinare la maggior quantità possibile di energia, sia direttamente dal sole (i vegetali), sia indirettamente dagli animali .

Ora ci interessa capire il punto di svolta che ha determinato il passaggio da un agricoltura di autosussistenza ad una agricoltura industriale.

L’ agricoltura di autosussistenza era quella in cui la fattoria era un sistema in cui il processo produttivo alimentare era ciclico, diversificato ed autosufficiente nel senso che gli uomini , gli animali e le piante erano integrati in un processo che si basava sull’uso dell’energia solare come fonte principale del processo.

Il sole fa crescere le piante che alimentano gli animali che alimentano l’uomo e, a ritroso, il letame ed il sole fanno ripartire il ciclo.

La chiave chimica di tale processo si fonda sul ciclo dell’azoto. L’azoto è fondamentale per la sopravvivenza di noi esseri umani. L’azoto serve alla produzione di composti vitali come gli amminoacidi (proteine) e le basi azotate (acidi nucleici). La riserva più grande di azoto della terra è l’atmosfera dove l’azoto occupa circa il 78% del volume totale. L’azoto nell’atmosfera non è quello più utile per noi esseri umani perché non può essere assorbito dalle piante.

A giocare un ruolo fondamentale nel ciclo dell’azoto sono infatti le piante. Una piccola parte di azoto si trova nel suolo e le piante riescono ad assimilare l’azoto tramite l’assorbimento da parte dell’apparato radicale.

Malgrado la grande abbondanza nell’atmosfera la sua forma gassosa molecolare non è utilizzabile e solo certi batteri che vivono sulle radici delle leguminose o le scariche elettriche di fulmini che scindono la molecola riescono a rendere l’azoto utilizzabile per le piante.

Il processo Haber-Bosh

Fino al 1909 la quantità di vita che la  terra poteva sostenere era limitata dalla quantità di azoto fissata dai batteri e prodotta dai fulmini.

In quell’anno ci fu l’invenzione del processo chimico Haber-Bosh che è un metodo che permette la sintesi industriale dell’ammoniaca su larga scala utilizzando come reagenti azoto e idrogeno.

Utilizzato inizialmente per scopi bellici (i nitrati sono essenziali per produrre esplosivi), questo metodo ha aperto la strada alla produzione dei fertilizzanti chimici basati sul nitrato di ammonio.

La fissazione chimica dell’azoto ed il suo uso come concime ha fatto sì che la catena alimentare voltasse le spalle alla ragione biologica e abbracciasse quella industriale. Anziché attingere esclusivamente alla fonte solare l’umanità ha iniziato a bere i primi sorsi di petrolio .

 La chimica non solo ha sostituito il ruolo del sole e dei batteri ma ha reso possibile l’aumento della produttività dei campi. Oltre all’azoto, gli altri elementi fondamentali per le produzioni agricole sono il fosforo e il potassio, dalle cui iniziali ha origine la famosa sigla NPK, che è il fertilizzante alla base della maggior parte delle produzioni agricole. Se quelli prodotti in laboratorio sono detti concimi chimici (o minerali) esistono anche i concimi organici, in cui i tre elementi sopra citati sono legati al carbonio e sono di derivazione animale o vegetale. 

Spieghiamo perché il petrolio.

Il processo Haber-Bosch consuma molta energia e questa energia è fornita dall’uso del  petrolio e dal carbone come fonte energetica per cui oggi invece di avere la trasformazione di energia solare in cibo attraverso la fotosintesi clorofilliana si ha sempre più massicciamente la trasformazione dei combustibili fossili in cibo nel senso che l’energia dei combustibili fossili permette la reazione chimica che produce il concime chimico.

I concimi azotati  funzionano da vero e proprio doping per le piante e aumentano in maniera enorme la produttività del suolo.

Si stima che oggi sulla Terra almeno 2 abitanti su 5 sopravvivano per l’uso di fertilizzanti chimici.

Ma nonostante la sua importanza, l’uso massiccio di fertilizzanti azotati comporta un grande paradosso. Da un lato, sono essenziali per garantire la grande quantità di cibo, ma d’altra parte, hanno un impatto negativo sull’ambiente.

La ragione è che l’uso efficiente dell’azoto che viene impiegato nella sintesi industriale dei fertilizzanti è molto scarso, il che significa che la quantità residua contribuisce all’inquinamento ambientale provocando l’eutrofizzazione dell’acqua, la perdita di biodiversità e l’alterazione negativa del bilancio atmosferico e, cosa più importante, trasforma un processo energetico ciclico basato su una fonte di energia rinnovabile, quella solare, in un processo irreversibile e non rinnovabile.

Impatto dei fertilizzanti azotati sulla produzione di carne

I concimi azotati hanno svincolato il contadino dalla necessità di produrre cibo a partire dai vincoli biologici e lo hanno reso padrone di decidere la produttività del suo campo semplicemente comprando, a prezzi ragionevoli, quantità via via crescenti di concimi chimici.

Il passo successivo per esaltare la produttività dei campi è stato quello di standardizzare la produzione agricola privilegiando la coltura di pochi cereali e leguminose ad alta resa che , con opportune ibridazioni, esaltassero in maniera esponenziale la produttività dei terreni.

I prodotti che hanno realizzato il massimo rendimento sono il mais

e la soia.

Si è avuta un  agricoltura in gran parte finalizzata a poche specie e questo è quel che si intende quando si parla di “MONOCULTURA”.

Negli anni 50 è iniziato un processo in cui la resa dei campi è decuplicata.

Questa enorme produzione di mais o soia era eccessiva per essere utilizzata per l’alimentazione diretta umana ma poteva essere usata per l’alimentazione animale.

A partire degli anni 50 un flusso inesauribile di mais a poco prezzo rese economicamente conveniente chiudere i bovini in grandi stalle e nutrirli con mangimi invece che lasciarli pascolare nei prati, e lo stesso avvenne per i polli e questo stravolgendo anche il regime alimentare degli animali che erano costretti ad alimentarsi con un solo tipo di alimento .

Per compensare questo impoverimento dell’alimentazione e i problemi epidemiologici della concentrazione di migliaia di animali in spazi ristretti si è stati costretti ad aggiungere farmaci come antibiotici ed ormoni  ed a distruggere la qualità della vita di questi esseri .

Chi ancora teneva le bestie all’aperto non poteva competere economicamente  con l’allevamento industriale.

Il mais era riuscito a scacciare gli animali dai campi spazzando via il loro foraggio e poi sta mandando via anche gli uomini perché la monocultura richiede sempre molto meno lavoro umano.

La soia fu ed è il legume alternativo al mais per cercare di arginare con una rotazione i problemi di degrado dei campi ed oggi in Brasile vaste zone della foresta amazzonica sono adibite a questa coltivazione con un impatto ambientale ed umano tremendo.

Il mais o la soia diventano quindi MANGIMI che nutrono il manzo, il pollo, il maiale, il tacchino, l’agnello, il pesce gatto, il salmone.

Grandi , immense, fattorie con enormi depositi di mais e soia raccolgono migliaia , a volte milioni, di animali che vengono alimentati, meglio dire forzosamente ingrassati, per produrre nel più breve tempo possibile la carne che si vende nei supermercati di tutto il mondo.

Non solo la carne è il risultato del mais ; termini come amido modificato, sciroppo di glucosio, maltodestrine, fruttosio cristallizzato, acido ascorbico, lecitina, destrosio, acido lattico, lisina, maltosio ecc. si traducono in un solo modo: MAIS.

Quindi se è vero che siamo quel che mangiamo, allora siamo MAIS, anzi “prodotti della lavorazione del mais.

Oggi non è facile trovare un alimento industriale che non contenga mais e soia.

Il mais fornisce i carboidrati sotto forma di zuccheri e amidi mentre la soia, essendo una leguminosa, dà le proteine.

La carne non è più un privilegio alimentare dei ricchi

Questa frase è l’argomento più forte a sostegno della rivoluzione alimentare  introdotta dagli allevamenti intensivi ed è innegabilmente un argomento solido e di innegabile efficacia che alimenta il dibattito, sempre più intenso, sulla salute e la sostenibilità della catena alimentare moderna.

La questione è complessa e presenta diversi aspetti che vanno analizzati in un quadro complessivo in cui intervengono fattori storici, economici, salutistici, ecologici e, non ultimo, organolettici.

La storia dell’alimentazione è legata alla storia dell’organizzazione sociale, economica e religiosa degli insediamenti umani così come alla storia dei modelli di comportamento nella vita quotidiana. L’alimentazione ha sempre avuto una forte dimensione simbolica e comunicativa.

Il regime alimentare dei popoli  dalle prime forme di civiltà fino alle soglie della modernità era generalmente monotono e povero, arricchito solo occasionalmente dalla carne e reso incerto dal ripetersi delle carestie .

La carne quindi come alimento a basso costo e quindi non più elemento occasionale della dieta è una conquista moderna che non va demonizzata ma va valutata nel suo impatto complessivo sulla salute dell’individuo e del pianeta.

La carne, consumata in quantità modeste, non provoca danni alla salute ma sicuramente la carne prodotta in allevamenti intensivi necessariamente prodotta con largo uso di antibiotici ed ormoni può causare gravi danni alla salute e quindi il problema ritorna ad essere la forma di produzione degli alimenti .

Studi recenti (IARC)  hanno evidenziato, in particolare, che la carne rossa, consumata in modalità continua e giornaliera può essere cancerogena.

Quindi è l’eccesso alimentare accompagnato dalla genesi industriale intensiva con i suoi derivati di antibiotici ed ormoni che può produrre danni alla salute.

Sicuramente la varietà alimentare è la ricchezza e la forza che hanno probabilmente permesso agli esseri umani di adattarsi e sopravvivere nelle condizioni più disparate e disperate che ha incontrato.

Essere onnivori è stata una necessità evolutiva vincente, il problema FONDAMENTALE consiste nel come declinare oggi il nostro essere onnivori.

Animali che soffrono

Io credo che la questione fondamentale legata al consumo di carne sia una questione etica ed una questione scientifica, entrambe legate al concetto di sofferenza.

L’opinione comune tra scienziati e filosofi è che gli animali superiori abbiano circuiti nervosi dedicati al dolore molto simili ad i nostri e questo per ragioni evoluzionistiche comuni.

Certo non sappiamo cosa passa nella mente di una mucca o di una gallina quando vive in una fattoria o in un allevamento intensivo ma è ragionevole supporre che, in linea generale, nella fattoria la sofferenza è nel momento finale di una vita che è stata quasi felice mentre in un allevamento intensivo la sofferenza è continua e la morte una liberazione.

La domesticazione degli animali  e il passaggio all’agricoltura che ha rivoluzionato la vita dell’homo sapiens nel neolitico è anche stato un processo positivo per tutta la vasta gamma di animali che sono sopravvissuti in una nicchia protetta dalla coesistenza con l’uomo.

Dai polli alle mucche , dai cani ai gatti, dalle pecore ai maiali, la domesticazione ha prodotto un fondamentale beneficio alla sopravvivenza umana ma anche agli stessi animali che evidentemente come specie si sono modificate ma si sono anche diffuse.

Quindi credo che il problema etico si ritraduce in un problema economico, ovvero non è eticamente accettabile ridurre gli animali a macchine e questo evidenzia ancora una volta una faccia del capitalismo in cui l’impulso economicista tende ad erodere i pilastri morali della società.

Una produzione alimentare eticamente ed economicamente sostenibile

L’ottanta per cento della deforestazione globale è causata dall’agricoltura industriale, e l’aumento della produzione e del consumo di carne è una delle maggiori minacce per la sopravvivenza delle foreste primarie rimaste. Si stima infatti che il 75-80% della superficie agricola globale sia dedicata alla coltivazione di colture destinate a nutrire gli animali stipati negli allevamenti intensivi.

Ridurre drasticamente il consumo di carne alleggerirebbe la pressione del settore agricolo sull’ambiente.

Secondo le statistiche della FAO, nel 2014 sono state consumate nel mondo 312 milioni tonnellate di carne, che corrispondono a una media di quasi 43 kg annui per abitante. Tuttavia, il consumo medio di carne nel mondo è molto eterogeneo. I Paesi sviluppati consumano circa 76 kg pro-capite annui e la media dei Paesi in via di sviluppo è di 34 kg. Mentre i cittadini degli Stati Uniti d’America consumano in media 120 kg l’anno, il consumo pro-capite di oltre 20 Paesi del mondo è inferiore ai 10 kg. Alcune di queste differenze sono dovute a fattori culturali e religiosi che limitano la diffusione del consumo di carne in generale (come in India) o il consumo di carni specifiche (la carne bovina in India e la carne suina nei Paesi musulmani). Tuttavia, uno dei fattori che maggiormente influisce sul consumo di carne è la ricchezza economica di una Paese: i modelli di consumo attuale, infatti, mostrano come i consumatori con i livelli più elevati di benessere (e, quindi, con una maggiore disponibilità economica) richiedono sempre più cibi di originale animale. All’inizio del XXI secolo, il totale della popolazione residente nei paesi ricchi rappresentava il 20% della popolazione totale, ma ha prodotto e consumato il 60% della carne avicola e il 40% delle carni rosse.

Il passaggio recente di grandi masse di popolazione da condizioni di estrema povertà (Cina, India) a ceto medio è sicuramente positivo ed è uno degli elementi forti della globalizzazione ma questo implica ancora una maggiore richiesta di carne.

È stato anche calcolato che per allevare una mucca di 5 quintali è necessaria una spesa energetica pari a 6 barili (circa 1000 litri) di petrolio; per produrre 1 kg di carne di vitello occorrono 7 litri di petrolio.

Quindi il consumo di carne nel mondo richiede 15288 milioni di litri di petrolio, cioè più di 15 miliardi di litri di petrolio.

La produzione mondiale annua di petrolio è  di 5500 miliardi e cioè la produzione della sola carne assorbe circa il 3 per mille dell’energia da petrolio.

Se si mangiasse 2 volte a settimana 100 gr di carne si avrebbe un consumo medio di circa  10 Kg all’anno abbassando la media a meno di un quarto rispetto  al 2014.

Senza contare i notevoli benefici in salute e spese mediche.

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Questo ci permetterebbe di liberare 3/4  di terreni dalla produzione di foraggi per la produzione di mangimi per l’allevamento intensivo.

I limiti energetici dell’agricoltura biologica

La produzione alimentare mondiale è governata dal commercio internazionale, così il modo di fare agricoltura influenza la deforestazione ai tropici. Se usiamo più terra per produrre la stessa quantità di cibo, contribuiamo indirettamente a una deforestazione più grande da un’altra parte del mondo.

Diversi studi mostrano che la coltivazione biologica, ha un impatto sul clima pari a circa il 50% in più della coltivazione convenzionale .

Le colture per ettaro hanno rendimenti significativamente più bassi nell’agricoltura biologica rispetto all’agricoltura convenzionale, questo aspetto porterebbe ad una quantità più elevata di emissioni indirette di anidride carbonica a causa della deforestazione. Anche se le emissioni dirette di CO2 da agricoltura biologica sono spesso più basse per via dell’impiego di una quantità inferiore di energia derivata da combustibili fossili, in generale, l’impatto sul clima da parte dell’agricoltura biologica sembrerebbe più grande rispetto all’agricoltura convenzionale.

Anche l’uso di animali da allevamento biologico viene proposto come una soluzione ecologicamente sostenibile. Ma anche l’allevamento biologico, basato sui sistemi estensivi, comporta un impatto ambientale rilevante e in alcuni casi addirittura superiore ai sistemi di allevamento intensivo.

Per quanto riguarda gli effetti sul riscaldamento globale, nello studio dell’Institute for Ecological Economy Research di Berlino secondo gli autori dello studio l’allevamento biologico non sarebbe di per sé una soluzione al problema delle emissioni di gas serra del settore zootecnico, poiché sarebbe in grado di ridurre le emissioni solo del 15-20%, inoltre una completa conversione degli allevamenti attuali in sistemi di tipo estensivo necessiterebbe del 60% di superficie in più, che in Europa non sarebbe comunque disponibile. Quindi, concludono gli autori, l’allevamento biologico potrebbe essere considerato un’alternativa realistica solo a patto che la produzione e il consumo di carne e latte si riducano del 70%, in modo da rendere possibile il pascolo degli animali sulle terre disponibili.

Cibo a chilometro zero

In altri casi si focalizza l’attenzione su cause minori, ad esempio sul fronte alimentare, si consiglia la scelta del cosiddetto “cibo a chilometro zero” (ovvero cibo acquistato da produttori locali), in quanto comporterebbe una drastica riduzione delle emissione di gas nocivi.

Tuttavia uno studio del 2008  ha rilevato che le emissioni di gas serra associate al cibo sono determinate principalmente dalla fase di produzione, che contribuisce per l’83% del totale, mentre il trasporto delle materie prime contribuisce per l’11% e il trasporto finale dal produttore al consumatore contribuisce invece solo per il 4%, e nel calcolo del “cibo a chilometro zero” viene considerato solo quest’ultimo passaggio.

Ovviamente il cibo consumato in una dieta a chilometro zero dovrà essere esclusivamente delle varietà locali. Ad esempio un Milanese non potrebbe avere accesso alle arance, nessuno Svedese alla pasta, nessun Europeo alle banane e così via.

Conclusioni

La prima considerazione che mi sento di fare è che il convitato di pietra che presiede, ospite o fantasma, in questa discussione è il reddito disponibile in una famiglia perché la scelta di un cibo sano a basso impatto ambientale è anche un cibo più costoso e poiché mangiare non è una opzione ma una necessità la scelta è fortemente condizionata dalla disponibilità economica e non solo e non tanto dalla consapevolezza scientifica e dalla morale.

Ancora oggi per molti popoli del terzo mondo il cibo è sempre una preoccupazione di reperibilità, mentre per noi spesso è un dilemma o un divertimento culturale e questo ci fa capire che non esiste una soluzione ottimale per tutti anche se è innegabile che la disparità di accesso al cibo debba prevedere che ci sia un riequilibrio generale energetico ed alimentare che riduca l’impatto della parte ricca della popolazione mondiale sull’ecosistema Terra.

In un problema complesso come quello alimentare ci sono però alcuni punti che non sono opinabili.

La scelta della produzione alimentare legata al consumo di petrolio non può più essere incoraggiata e protetta ma deve, là dove possibile, essere trasformata progressivamente verso un ritorno, scientificamente supportato, al ciclo solare rinnovabile.

Quando dico “scientificamente supportato” voglio intendere che la produttività deve essere legata all’uso di tutta la scienza  che l’umanità ha a disposizione ed è opportuno discutere senza anatemi di biotecnologie applicate all’agricoltura .

Le nuove biotecnologie aiuteranno le scienze agrarie a perseguire gli obiettivi del futuro che sono :

Produrre meglio – Produrre di più – Produrre consumando meno risorse energetiche.

Basti pensare che uno degli obiettivi che la scienza si pone è quello di trasferire nei cereali la capacità di fissare l’azoto tipica dei legumi per ridurre drasticamente l’uso dei fertilizzanti chimici.

Oggi non possiamo più permetterci di ignorare l’editing genetico di precisione con la rivoluzione introdotta dal metodo CRISP e continuare a usare semplicemente i metodi tradizionali di mutagenesi indotta.

Tutto  questo non ci deve far abbracciare in maniera acritica tutto quello che deriva da queste nuove tecnologie perché il diavolo si può nascondere nell’uso monopolistico e asservativo delle sementi e dei processi e quindi ritorna prepotentemente la necessità che ci sia un controllo politico democratico ovvero che ci sia un UMANESIMO TECNOLOGICO.

È anche evidente che una cultura alimentare è terribilmente condizionata dalla pubblicità e dai modelli culturali indotti che a fronte del falso mito di corpi sani e belli promuovono consumi  dannosi alla salute.

Marx parlava nel XIX secolo del fantasma del comunismo che si aggirava in Europa , oggi si vive nell’ossessione del CUCINISMO che diventa il rovello di infinite trasmissioni, dibattiti e gare.

Oggi dilaga a livello mondiale il problema dell’obesità anche perché chi non ha molti soldi da spendere in cibarie si concentra sulle calorie più a buon mercato, specialmente se queste sono date da grassi e zuccheri, cioè dalle sostanze che danno più soddisfazione dal punto di vista neurologico.

Nello stesso scaffale 1 euro vi garantisce 875 calorie di bibite gassate ma solo 170 di succo di frutta.

Se a questo si aggiunge la comodità e , spesso, la necessità di avere in poco tempo cibi pronti mentre si mangia senza guardare nel piatto e discutere in famiglia, ma guardando la televisione, allora si può anche capire che negli allevamenti intensivi non ci sono finiti solo gli animali.

Family eating dinner

LINK DI RIFERIMENTO

Il cibo è una religione

Il Dilemma Dell’ Onnivoro – Michael Pollan – Bing video

La carne crea gli stessi problemi del carbone nella crisi climatica

Modelli matematici sull’evoluzione demografica mondiale (SS/UN) (matematicamente.it)

Quanto petrolio ci vuole per avere un chilo di carne (agi.it)

AGRICOLTURA_EUROPA_INDUSTRIALIZZATA_lezione.pdf (treccani.it)

Impatto ambientale dell’industria dei cibi animali – Wikipedia

Carne e salumi, quei 37 miliardi di costi nascosti- Corriere.it

Biotecnologie in agricoltura, leve di innovazione e sostenibilità – (edagricole.it)

Falsi dilemmi e OGM

Un commento Aggiungi il tuo

  1. haagrf ha detto:

    E’ stato molto utile ripassare le
    problematiche che ci hanno portato alla disastrosa situazione ambientale nella quale ci troviamo. Le nuove tecnologie ci hanno permesso purtroppo di moltiplicarci a dismisura, mettendo gli ecosistemi sotto pressione. Ho letto che,
    mentre prima della nascita dell’agricoltura gli essere umani con i loro pochi animali domestici costituivano il 2% della
    biomassa degli animali e gli animali selvatici il 98%, ora è il contrario. Siamo troppi!

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